Può essere disposto un ordine di ripristino dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione?

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La questione della responsabilità del curatore fallimentare in materia di tutela ambientale e, in particolare, della imputabilità al fallimento degli obblighi di messa in sicurezza e smaltimento dei rifiuti è molto dibattuta.

La giurisprudenza amministrativa si è orientata in un primo filone più risalente, secondo il quale gli obblighi di smaltimento dei rifiuti graverebbero sulla curatela fallimentare in base alla esclusività del titolo di disponibilità e gestione dei beni da parte del curatore, al posto del fallito.

Sulla scorta di una concezione, che possiamo ritenere oggi superata, sarebbero gravati sulla curatela, in modo oggettivo, ed a prescindere da valutazioni inerenti il concreto autore del fatto, il dovere di rimuoverli in applicazione delle leggi vigenti.

Si procede, in questo senso, da una concezione “costitutiva” degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, tale da privare il fallito della disponibilità dei suoi beni ed il trasferimento di essi nella massa fallimentare. Da ciò deriverebbe il dovere di rimuovere i rifiuti allocati nelle aree oggetto del fallimento quale specifica esecuzione di uno dei tanti doveri connessi al proprio ruolo, da inserire, peraltro, tra le varie voci di spesa del passivo fallimentare1.

Un secondo orientamento2, muta l’indirizzo, e muove dal presupposto che il curatore fallimentare non può essere destinatario di alcun obbligo di bonifica dei siti inquinati o di rimozione, avvio a recupero o smaltimento di rifiuti riconducibili all’attività posta in essere prima della dichiarazione di fallimento.

Si procede dalla considerazione per cui la curatela fallimentare non è un subentrante dell’impresa fallita (che conserva la propria soggettività giuridica e titolarità in ordine al patrimonio) bensì un terzo subentrante nell’amministrazione del suo patrimonio.

Ne deriva che il curatore non possa essere chiamato ad assolvere gli obblighi che siano originariamente sorti in capo all’imprenditore, neppure se concernono rapporti pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Ciò in quanto la gestione del patrimonio del fallito è finalizzata alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione dei creditori.

Si ritiene opportuno precisare, tuttavia, che il curatore del fallimento non è esentato da ogni e qualsiasi obbligo in tema di attività di gestione di rifiuti. Residueranno, a carico della curatela fallimentare, gli interventi di messa in sicurezza e di misure di controllo legate alle situazioni di contingente pericolo ed urgenza. In tale contesto l’esigenza precauzionale sia una responsabilità, per il curatore fallimentare, può ascriversi in relazione ai reati ambientali nei limiti in cui il curatore possa individuarsi, in modo rigoroso, a titolo di dolo e/o colpa quale effettivo produttore dell’abbandono o del fatto di inquinamento.

L’applicazione del principio del “chi inquina paga” in definitiva non comporta, quindi, necessariamente, il dovere di adottare particolari comportamenti finalizzati alla tutela dell’ambiente, qualora il curatore non possa essere individuato quale concreto responsabile del fatto di abbandono di rifiuti ascritto e/o di inquinamento ambientale.

In conclusione ai fini della attribuzione della responsabilità, in capo al curatore, circa l’abbandono o l’inquinamento su di un sito che compone uno dei beni dell’attivo fallimentare, non è sufficiente che il fatto sia accertato nell’area stessa. L’Autorità di controllo sarà tenuta ad espletare una adeguata istruttoria finalizzata ad appurare le dinamiche concrete dell’abbandono ed i necessari accertamenti sulla colpa o il dolo del curatore. Ciò, peraltro, in contraddittorio con i soggetti interessati.


1 Cfr., in tal senso, TAR Toscana, sez. I, 3.03.1993, nr. 196; TAR Toscana, sez. II, 28.04.2000, nr. 780; TAR Marche, ordinanza 149/2007.

2 Ex multis TAR Sicilia, Catania, del 5 settembre 2018, nr. 1764.

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