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I rifiuti riconducibili alle voci a specchio devono essere oggetto di analisi di laboratorio, onde stabilirne la pericolosità o escluderla. Il nodo problematico risiede nella ricognizione del criterio in base al quale devono essere condotte le analisi: si deve spingere l’indagine fino all’estremo, indagando tutte le possibili sostanze pericolose e il loro grado di concentrazione?
L’allegato alla Decisione della Commissione Ue 2014/955/Ue all’art. 2, obiettivamente con poca precisione, espone la procedura per la classificazione di un rifiuto come pericoloso. Ad ogni modo la lettura (fuorviante) delle fonti europee provocava una problematica di raccordo e congruità del nostro diritto, ove il decreto legge del 24 giugno 2014, n. 91, coordinato con la legge di conversione dell’11 agosto 2014, n. 116, all’art. 13 comma 5 b-bis), stabiliva in una Premessa delle regole rigide per la classificazione, imponendo analisi esaustive e presunzione di pericolosità in caso di impossibilità di procedere. Si giunge, quindi, alla legge del 3 agosto 2017, n. 123, che sopprime l’intera premessa all’allegato D, indicando quale riferimento la normativa europea.
Le fonti europee però non sono puntuali e non dettano una procedura da seguire facile da desumere1.
Quando alla Corte di Cassazione2 è spettato il confronto con l’incandescente materia e la scelta della corretta interpretazione, la stessa indicava la posizione prudente (già sostenuta in dottrina) della adeguata caratterizzazione del rifiuto, scongiurando una utopica ricerca indiscriminata di tutte le sostanze che esso potrebbe astrattamente contenere.
Tuttavia, trattandosi di leggere le fonti europee, si rimetteva alla Corte di Giustizia di vagliarne la correttezza.
Si ricorda che la Corte di giustizia nella pronuncia dello scorso 28 marzo 2019, cause riunite da C‑487/17 a C‑489/17 ha letto la normativa europea nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi, onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento n. 440/2008 o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale.
Sulla scia la Cassazione Sez. III n. 42788 del 21 novembre 2019 rifiuta apertamente entrambi le tesi della certezza e della probabilità sorte in relazione al criterio di analisi delle voci speculari poiché la Corte di giustizia ha letto le fonti nel senso della ragionevolezza che orienta l’indagine.
Il produttore o detentore deve procedere, quindi, ad un ragionevole accertamento della composizione dei rifiuti e verificare successivamente l’eventuale pericolosità delle sostanze individuate.
In conclusione sono da rifiutare – argomenta la Cassazione – sia la certezza assoluta che si concreti in analisi chimiche esaustive del rifiuto volte ad escludere il superamento delle concentrazioni limite di riferimento attraverso l’individuazione analitica del 99,9% delle componenti del rifiuto autorizzato ma anche l’indagine limitata alle sostanze che in base al processo produttivo è possibile possano conferire al rifiuto stesso. In breve “entrambe le soluzioni interpretative adottate siano palesemente in contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia”.
Se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota ( in tal caso addirittura non sussiste la necessità di condurre analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato.